C’è stato un momento nella conferenza stampa di giovedì sera in cui il presidente è apparso sconfortato, quasi rassegnato: «Non importa cosa ho detto, nessuno sarà soddisfatto», si è lasciato andare. È pur vero che durante l’evento con i media «le donazioni per lui sono letteralmente esplose», ha detto un funzionario della campagna.
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Poco dopo Joe Biden, smessi i panni del leader della «Nazione indispensabile» citata al summit Nato, ha indossato quelli del candidato in bilico in un colloquio riservato con il capo dei democratici alla Camera, Hakeem Jeffries.
Il successore di Nancy Pelosi si è fatto portatore dei dubbi, delle paure e degli umori dei colleghi. Non gli avrebbe offerto comunque un “endorsement”, dimostrazione di come la posizione del leader statunitense sia incerta. Anche se qualsiasi cosa dipende dalla sua volontà. Solo Biden, ripetono all’unisono strateghi ed esperti, può decidere cosa fare.
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Ieri Biden è volato in Michigan, Stato in bilico, per riprendere le fila di una campagna scossa dagli eventi degli ultimi 15 giorni che ha pianificato altri tour elettorali la prossima settimana mentre il rivale Donald Trump incasserà la nomination repubblicana a Milwaukee – in un clima di imprevista compattezza appena pochi mesi fa – e annuncerà il nome del suo vice ancora custodito gelosamente nella sua mente.
Benché Biden abbia dato solo marginali accenni a cedere il passo a Kamala Harris («l’ho scelta perché ritengo possa fare la presidente») lo staff elettorale ha iniziato a fare sondaggi a campione sull’opzione Harris al vertice del ticket presidenziale, un segnale che l’ipotesi di cambiare cavallo in corsa non è tramontata e che resta fondamentale tenersi pronti nel caso Biden decidesse il passo indietro.
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Uno stratega democratico in un colloquio con La Stampa ha spiegato che «ora il presidente deve cercare di trovare il modo di recuperare la fiducia».
Il problema è come, visto che ogni evento pubblico sarà passato al setaccio dai media e nulla sfuggirà alle telecamere. Biden sta cercando di puntellare il suo supporto nel partito: ha visto alcuni gruppi di deputati, come quelli del diviso Hispanic Caucus. Nel weekend vedrà i Progressisti (di Alexandria Ocasio Cortez) e i New Democrat (centristi). Ieri in un meeting via Zoom però il deputato Levin gli ha detto che è tempo di passare il testimone.
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C’è una fetta importante di personalità vicine al partito democratico – ex collaboratori di alto livello di Obama e di Clinton – giornalisti, attivisti che stanno tramando per far ritirare Biden in tempi rapidi. La rivelazione viene dal sito Axios e l’articolo è firmato da Jim VandeHei e Mike Allen, due fra i più stimati reporter statunitensi. Quel che i due hanno potuto raccontare è come una sorta di “Committee to Unelect The President”, totalmente informale, sta cercando di influenzare il dibattito attorno a Biden. Questi “veterani” delle Amministrazioni Clinton e Obama hanno commissionato sondaggi, fanno lobby presso i leader democratici, organizzano raccolte fondi e sfidano – scrive Axios – Biden in un modo aperto, in pubblico.
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Lo schema è quello di utilizzare email e sondaggi per creare una narrativa negativa a Biden e di sfidare altri democratici nei salotti Tv e sui social network per indebolire sempre più la posizione del presidente. Non c’è un coordinamento, nessuna mano invisibile a guidare i fili, e ognuno usa i mezzi che ha a disposizione, dai contatti con i deputati e quello con i donatori ai semplici post su X.
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Ma quanto ha rivelato Axios è che i big sono tutti a «un passo» da Obama o a Clinton. Tuttavia Biden ha incassato il completo sostegno dei sindacati riuniti nella Afl-Clo. Barack Obama non vuole macchiarsi e nemmeno finire con l’accusa di essere il “cospiratore in chief” ma la Cnn ha riferito di colloqui in settimana con Nancy Pelosi in cui i due avrebbero espresso le loro preoccupazioni per la candidatura di Biden. E la sua amicizia con Clooney tanto da non osteggiare la pubblicazione sul New York Times dell’editoriale anti-Biden è un segnale del coinvolgimento dell’ex presidente.
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Sicuramente ostili a un bis di Biden sono David Axelrod, lo spregiudicato guru del primo presidente afroamericano. I suoi rapporti con Biden sono pessimi, Axelrod è stato fra i primi, mesi fa, a sostenere che il presidente avrebbe perso in novembre contro Trump attirandosi gli strali della Casa Bianca.
Altri uomini del clan Obama, come Jon Favreau, Jon Lovett e Dan Pfeiffer, da tempo spingono per la nomina di un altro candidato e ad esempio Lovett ha scritto che «non possiamo negare che nelle due settimane dopo il dibattito è l’arrogante e piccolo Joe Biden che abbiamo visto di più».
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Un nuovo candidato è inevitabile, è invece il ritornello che porta in tv James Carville, vicinissimo ai Clinton. E poi ci sono i donatori – come Reed Hastings, co-fondatore di Netflix.
Senza contare gli editorialisti del New York Times Tom Friedman e Nick Kristoff, tutti a loro modo impegnati ad alimentare un clima per cui l’uscita di scena del presidente «è solo una questione di tempo».
